Ma sono ipotesi dai contorni anche costituzionalmente controversi. Per uscire dal vicolo cieco, M5S e Lega pensano perfino al ritorno alle urne: il primo con timore, la seconda con una miscela di dubbi e speranza. Sanno che sarà difficile ottenerle. Sono consapevoli che il Quirinale farà il possibile per non spezzare la legislatura dopo un anno. In più, dovrebbero essere d'accordo, e giocare contro l'Europa «matrigna». Sfida scivolosa. La Lega dovrebbe fare campagna elettorale contro un «contraente» incattivito, e forse guidato non più da Di Maio ma dal «sudamericano» Alessandro Di Battista o da Roberto Fico, presidente della Camera. Salvini non potrebbe che ricadere nelle braccia del centrodestra, quasi dovesse tornare all'«ovile» di un berlusconismo al tramonto. In più, con l'attuale legge elettorale sarebbe difficile consacrare un vincitore, come è successo il 4 marzo. L'argomento più forte, però, sarebbe la sopravvivenza dei gruppi parlamentari. «La scintilla», la chiamano così, tale da provocare una rottura, è facile da trovare.
Il contratto attacca-tutto può di colpo diventare il pretesto per rompere: i contrasti sono quotidiani. Solo che l'idea di andare a casa, per circa la metà degli eletti nelle file dei Cinque Stelle, provocherebbe una rivolta contro Di Maio. Se le elezioni fossero state in autunno, forse il vincolo dei due mandati non sarebbe stato cogente. Ma ora «Grillo non ci permetterebbe di cambiare questa regola», si spiega. Dunque, in qualche modo i due contraenti sono costretti a andare avanti; e a fronteggiare una realtà che ne sta rivelando i grandi limiti. Per paradosso, le Europee di maggio sono un traguardo lontano, che si vorrebbe ravvicinare. Permetterebbero di capire quanto la Lega sta crescendo, e quanto il M5S sta perdendo. Nella cerchia di Di Maio si ricorda il risultato deludente del 2014. «Alle Europee noi andiamo sempre male. I sondaggi allora ci davano al 28 per cento, e prendemmo il 20. Se stavolta riprendiamo il 20, possiamo reggere. Sotto, sarebbe più difficile». Insomma, si mettono le mani avanti.
Per quanto i ministri esorcizzino la prospettiva di un Paese in recessione, e neghino qualunque volontà di uscire dalla moneta unica, in questi ultimi mesi è stato scavato un solco profondo col resto del continente. E non sarà facile correggere in tempi brevi un'immagine di sicumera e dilettantismo, che ha fatto felici i nostri avversari. L'Italia giallo-verde è stata trasformata in un'arma contro tutti i populismi, in vista delle urne di maggio. L'Europa appare decisa a usare a proprio vantaggio M5S e Lega, e a farcela pagare: in attesa che il sistema politico vada oltre il passato e il presente. 20 novembre 2018 (modifica il 21 novembre 2018 | 13:45) © RIPRODUZIONE RISERVATA
Ma al di là di questi scenari futuribili e delle battute sarcastiche delle ultime settimane dei vicepremier del M5S, Luigi Di Maio, e della Lega, Matteo Salvini, ora l'Europa fa paura. Il governo di Roma ha capito che il suo splendido isolamento sta diventando pericoloso. Molte delle nazioni alleate sono decise a togliere qualunque margine di manovra all'Italia della «spesa creativa», costosa e sterile: la campagna per le Europee è in corso anche per loro. E a Conte toccherà il compito ingrato di ammorbidire l'ostilità e la diffidenza nei confronti della maggioranza. «Finora abbiamo tenuto duro per dimostrare che la nostra manovra può funzionare», spiegano a Palazzo Chigi. «Ma se lo spread continua a lievitare, siamo pronti a prendere misure straordinarie per abbattere il debito». È questo a far rispuntare l'idea del «Fondo patrimoniale degli italiani». Se ne trova un'eco nell'accenno del ministro grillino per i rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, quando assicura all'Europa: «Siamo pronti a mettere in campo un piano di dismissione degli immobili».
Anche perché allora ci fu l'exploit del Pd renziano. Stavolta sarà un'altra storia. Insomma, si accentua la sensazione di una navigazione a vista. Ecco perché affiora la voglia di approvare una legge elettorale che permetta di governare da soli avendo il 40 per cento; e di abbozzare una riforma costituzionale che preveda l'elezione diretta del capo dello Stato. Quando Beppe Grillo ha lanciato la proposta di riformare i poteri del Quirinale il 21 ottobre, dal palco del Circo Massimo, a Roma, è stato smentito dai suoi. In realtà, era una smentita d'ufficio. Nel Movimento, quell'idea circola, e trova sponde nella Lega. Avere un presidente figlio della «democrazia diretta», e farne un puro «esecutore» della maggioranza. L'identikit sembra già abbozzato: somiglia a quello di Giuseppe Conte. Ha il solo difetto di apparire l'ennesima espressione di una cultura della scorciatoia rivelata già dalla manovra; e destinata a far perdere all'Italia altro tempo, e soprattutto altri soldi: tanti, troppi.